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Diario di viaggio 2022

18 gennaio

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Roches Gravées
Cascata dei Gamberi

Cascata dei gamberi

Vialetto Dumanoir

Viale Dumanoir

Roches Gravées

Resti Roches Gravées

18  gennaio 2022

Basse-Terre tra natura, distillerie e siti storici

 

La settima giornata di questa esperienza di viaggiatore in solitaria, alla ricerca di emozioni tra le meraviglie naturali e storiche di questo bellissimo arcipelago delle Piccole Antille francesi, è iniziata alle 8:00 del mattino con il trasferimento da Deshaies a Petit-Bourg, attraversando, dopo aver lasciato la litoranea N2, la famosa “Route de la Traversee” per visitare due siti: il parco zoologico “Des Mamelles” e la cascata “Aux Ecrevisses, ovvero la cascata dei gamberi.

Questa strada, per circa trentanove chilometri, attraversa tutto il parco nazionale collegando i due versanti di Basse-Terre, ed è custode di numerosi siti naturali come il rilievo “Des Mamelles” formato da due vette, il Petit-Bourg di 716 metri d’altezza e il Pigeon di 768 metri, la vetta Morne à Louis (743 mt.), i due citati siti e la Maison de la Forêt, che per ragione di tempo ho tralasciato dal mio itinerario.

Il parco zoologico “Des Mamelles” è una vera e propria arca di Noè moderna, collocato nel contesto di un’area tropicale lussureggiante composta da più di mille specie di piante, percorsi su corde, e una passarella in legno che, attraversando l’intero parco, conduce su oltre venti siti all’interno dei quali trovano dimora circa ottantacinque specie animali dei Caraibi e della Guyana, suddivise tra mammiferi, uccelli, rettili e artropodi.

Un vero paradiso ben organizzato e molto ben strutturato per una platea di visitatori che non conosce limiti d’età.

Dopo aver gironzolato per circa un’ora per il parco e aver superato in solitaria e di nascosto (in effetti mi vergognavo un po’!) lo stretto ponte di corde, ho lasciato questa meraviglia immersa nella natura e mi sono diretto alla famosa cascata dei gamberi, tanto promossa dal turismo locale.

Circa sette o otto chilometri di strada e, dopo aver superato la sommità dei rilievi, sono giunto al parcheggio.

Da qui, in circa tre minuti di cammino lungo una passarella fiancheggiante il fiume Corossol ho raggiunto il punto d’osservazione posto a ridosso della cascata.

Un minuto di contemplazione dell’area circostante, quindi mi sono avvicinato al bacino che raccoglie le acque della cascata.

Con un salto di circa di sette/otto, il sito è un’attrazione naturale interessante, non certo paragonabile a quello offerto dalla cascata du Carbet con i suoi 120 di salto, ma comunque un bel colpo d’occhio e un toccasana per rifocillarsi nell’antistante specchio d’acqua di color celeste scuro.

A quel punto, non poteva assolutamente mancare il rito delle foto e delle riprese video.

Mi sono quindi portato sulla parte frontale della cascata, superando le lievi difficoltà di percorrenza delle rocce, e insieme a tanti altri turisti che in maniera composta e distanziata affollavano il luogo, ho immortalato ogni angolo di questa bellissima attrazione naturale.

Vista l’ora, e soprattutto la lieve pioggerellina, ho deciso di non tuffarmi, ma di proseguire in direzione del sito successivo, il salto Lézard.

Percorrendo il tratto finale della Route de la Traversee, il navigatore, che per fortuna in quel momento mi dava a segnali alternati la rotta da seguire, mi ha portato in un posto che non sembrava affatto il punto di partenza per raggiungere la cascata o il salto.

Inoltre, sia lungo la strada che in prossimità della cascata, non ho visto nessuna indicazione turistica, e ciò mi aveva lasciato perplesso già qualche minuto prima.

Alla Guadalupa la segnaletica stradale per città e siti turistici è molto presente, quindi, l’assenza dell’indicazione per Salt Lézard. mi ha messo in allarme.

Il tempo che avevo a disposizione non mi ha consentito di gironzolare troppo a lungo, anche perché mi sono ritrovato in una zona un po’ squallida e periferica, con la presenza di un paio di scarpe sui fili della luce, che per sentito dire costituisce un segnale sublime per coloro che hanno necessità di acquistare droga.

A quel punto, ho deciso di abbandonare il posto e portarmi sul sito successivo, la distilleria Montebello, posta a ridosso della spiaggia Viard, che però ho visitato in pochi minuti in quanto non sufficientemente attrattiva.

Un tempo chiamata distilleria Carrère, la Montebello, denominata così in riferimento al nome del quartiere in cui si trova, è stata fondata nel 1930.

Situata nel comune di Petit-Bourg, la storia recente della fabbrica di rum risale al 1968, quando Jean Marsolle (fratello di Henry Marsolle, che possiede e gestisce Domaine de Séverin) e suo figlio, acquistarono la distilleria. Oggi è guidata da Grégory Marsolle, nipote di Jean Marsolle.

Anche qui come per le precedenti distillerie visitate, la curiosità è andata agli stabilimenti, all’emporio e infine ai magazzini di stoccaggio del liquore.

A differenza delle precedenti distillerie che ho visto, la fabbrica della Montebello, forse perché situata a ridosso di Petit-Bourg, non essendo immersa all’interno di un rigoglioso parco con accanto le piantagioni della canna zucchero, mi è sembrata turisticamente meno attrattiva.

Comunque, visto lo studio che mesi addietro avevo fatto sulle distillerie, aver conosciuto e soprattutto toccato di persona anche questa azienda per me è stata una grande soddisfazione, al pari di quella vissuta poco dopo giungendo su un’altra distilleria posta pochi chilometri dopo, quella di Longueteau.

Situata nel comune di Capesterre-Belle-Eau, la distilleria Longueteau fu fondata da Henri Longueteau nel 1895.

Con l’acquisizione della proprietà da parte di Henri Longueteau, la tenuta fu trasformata da fabbrica di zucchero in distilleria dedita alla produzione di rum agricolo.

Oggi, la distilleria è ancora nelle mani della famiglia Longueteau, e la maggior parte della canna da zucchero (varietà rosse e blu) utilizzata nei cicli di produzione proviene dalle proprie piantagioni poste ai piedi del vulcano Soufrière.

Adiacente al punto vendita, posto però al di fuori dell’area di lavorazione della canna, gli attuali proprietari dell’azienda nel 2002 hanno lanciato il marchio Karukera, per la commercializzazione di un rum derivante dalla coltivazione di una specie diversa di canna da zucchero. 

Secondo le spiegazioni della guida, per questa tipologia di rum è stato messo in atto un approccio molto legato alle antiche tradizioni artigianali.

La pregiata gamma di rum agricole firmata Karukera, infatti, nasce esclusivamente da succo di canna da zucchero autoctona che cresce beneficiando di caldo clima caraibico.

Per di più la fermentazione avviene senza alcuna aggiunta di sostanza chimica, la distillazione si effettua utilizzando la classica colonna creola e per l'invecchiamento si usano botti di rovere francese o americano.  

Conclusa anche questa esperienza, le tre successive tappe nel Comune di Capesterre-Belle-Eau, prima della pausa pranzo, sono state: la visita della spiaggia Roseau, al tempio Indù Changy, luogo di culto della comunità Tamoule, e all’iconico viale Dumanoir.

La spiaggia Roseau, con le sue otto piccole e artificiali insenature, è un posto da sogno.

Queste rientranze sembrano delle vere piscine di circa venticinque metri di lunghezza per venti di larghezza.

Nell’area d’accesso, adiacente al parcheggio su terreno rialzato, trovano posto molti gazebo dai quali è possibile ammirare romanticamente la bellezza delle celesti acque del mare.

Insomma, una bella spiaggia pubblica, molto grande, pulita e ben attrezzata, dove chiaramente la presenza delle classiche palmette e la sabbia chiara conferiscono al posto quel tocco tropicale, classico dell’isola.

Lasciata la spiaggia mi sono diretto al tempio Indù Changy che, purtroppo, ho trovato chiuso.

La struttura alta circa una quindici di metri è circondata da un giardino con alberi di banano e palme; è dedicata alla dea Mayinmen e riprende lo stile architettonico tipico dei templi induisti.

Il tempo di immortalarlo con qualche foto, quindi ho proseguito per il famoso viale Dumanoir.

Posto parallelamente alla strada di grande comunicazione N1, il viale è di una bellezza stupefacente.

Esso, infatti, si caratterizza per la presenza di un lungo manto stradale ai bordi del quale sono presenti oltre 400 palme reali piantate intorno al 1850 dalla famiglia Pinel-Dumanoir.

In sintesi, oltre un chilometro di strada non trafficata, dove è possibile ritirarsi e trascorrere momenti di puro relax sul grande prato verde che separa la N1 dal vialetto.

L’occasione è stata quindi propizia per la pausa pranzo.

Mi sono portato sotto uno dei gazebo posti sul prato e ho consumato il pasto, peraltro in compagnia di alcune scolaresche di scuole elementari, intente a trascorre una mezza giornata all’aperto.

Due le cose che ho notato osservando questi bambini: una, che erano vestiti tutti uguali, ossia pantaloncino corto jeans e t-shirt bianca (questo abbigliamento lo avevo già visto in altre città anche per ragazzi di età superiore), l’atra è che man mano che passavano vicino a me tutti indistintamente mi porgevano il “bonjour”.

Che dire? Non saprei come commentare (Anzi lo saprei!).

Esaurita la pausa pranzo, il via alle ultime due escursioni del giorno, entrambe all’insegna della storia: la visita al parco archeologico “Roches Gravées” e al sito “Belmont”, luogo, quest’ultimo, inserito tra i diciotto della “Slave Route”.

Per visitarli, mi sono quindi trasferito da Capesterre-Belle-Eau a Trois-Rivières, piccolo centro di circa 9mila abitanti, posto sulla punta sud di Basse-Terre e sede altresì del porto d’imbarco per l’arcipelago di Les Saintes.

Il Roches Gravées è praticamente un museo a cielo aperto ed è custode di oltre 230 incisioni rupestri risalenti al IV secolo dopo Cristo, straordinaria testimonianza lasciata dai primi abitanti della Guadalupa, gli indiani Arawak.

Avvolto in un ambiente rigoglioso di piante tropicali e bagnato da trasparenti ruscelli d’acqua, Roches Gravées è un luogo quasi fiabesco.

Dopo aver parcheggiato l’auto nella piccola area antistante l’ingresso, sono entrato nel parco e, piantina alla mano ‒ ritirata nell’adiacente office ‒ ho iniziato il tour tra le famose pietre intagliate e incastonate sul terreno, scientificamente denominate “petroglifi”.

Questi resti nel 1974 sono stati classificati monumenti storici e si mostrano alla visione dei turisti con incisioni raffiguranti volti, corpi umani, animali e forme geometriche.

Il giro all’interno del parco, della durata di circa quaranta minuti, è stato molto interessante, e considerando che avevo a disposizione un buon margine di tempo per visionare il sito “Belmont”, peraltro posto nelle immediate vicinanze, mi sono fatto un giretto nell’adiacente porticciolo.

Finito di curiosare per il porto, grazie a Google Maps, mi sono recato verso i resti del vecchio zuccherificio “Belmont”.

Le origini di questa abitazione risalgono agli inizi della colonizzazione della Guadalupa, tanto che nel 1660 ci lavoravano uomini bianchi e schiavi neri.

Venduta due volte nel 1752 e nel 1772, la proprietà rimase alla famiglia Botreau-Roussel per due secoli.

Lo zuccherificio era dotato di quattro caldaie, e tra i resti sparsi su diversi appezzamenti privati, oggi è ammirabile soltanto la prigione in muratura risalente al XVIII secolo, dotata di una apertura all’interno della quale venivano rinchiusi gli schiavi puniti dal padrone dell’abitazione.

All’interno è possibile ammirare anche una panca in muratura.

Oggi è collocata a ridosso delle abitazioni del piccolo centro, tanto che l’accesso è possibile soltanto saltandoci dentro, e non dalla porta d’ingresso in quanto collocata in un giardino di una casa privata.

Completata anche questa escursione, la giornata poteva ritenersi felicemente conclusa.

A quel punto ho deciso di far rientro a Deshaies per dedicarmi ai preparativi del giorno dopo, che mi avrebbe visto inerpicarmi sui ripidi pendii del vulcano Soufrière, e non solo.

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